Quiet quitting

Che cos’è il quiet quitting?

Il quiet quitting è l’idea di non prendere troppo seriamente il proprio lavoro, di non sacrificarsi indefessamente per superare ogni possibile aspettativa, di non fare del lavoro l’unico scopo di vita, a scapito di tutto il resto.  Il senso di fondo è che non si coincide con l’ideale lavorativo e non si può trarre da questo il proprio valore. 

Quiet quitting e i social

Secondo un sondaggio americano sul benessere lavorativo, il 54% degli intervistati nati dopo il 1989 – quindi tutti appartenenti alle categorie dei giovani millennials e della gen Z – risulterebbe not engaged nel proprio lavoro. Per non ingaggiato si intende un lavoratore che si limita a presentarsi al lavoro e a fare il minimo indispensabile.

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Questo dato è allineato con il “movimento” del quite quitting (letteralmente uscire in silenzio) nato da un hashtag che gira sui social, soprattutto TikTok, a partire da metà 2022 e che ha reso alcuni video virali, come quelli del ventiquattrenne ingegnere newyorchese Zaid Khan che, tra i primi, ha manifestato il suo intento di fare il giusto indispensabile sul lavoro, per concentrarsi sulla vita al di fuori.

Nei video, ispirati al quite quitting, si possono vedere i protagonisti godersi belle giornate, fare ciò che vogliono oppure anche solo permettersi di perdere tempo. Sullo schermo appaiono queste scritte: “Quite quitting is idea to not go above and beyond. Work is not your life. Your worth is not defined by your productive output”.

Oltre la produttività

Sebbene la comunità scientifica non sia interessata, o almeno non ancora, a questo fenomeno, il quite quitting ha stimolato numerosi articoli su importanti giornali. Sul Wall street Journal Lindsay Ellis e Angela Yang riportano numerosi esempi di giovani sotto i trent’anni che esauriti dal proprio spingersi oltre le aspettative di colleghi e boss, realizzano come la vita possa essere più soddisfacente se si separano vita lavorativa e vita privata, con un beneficio per quest’ultima a scapito della prima.

Alcuni cambiano completamente vita, cercando lavori meno pagati o meno prestigiosi, ma con maggior margine di libertà personale, altri semplicemente cambiano il proprio rapporto con il lavoro e si accorgono che così facendo, le cose vanno meglio, anche il lavoro stesso. Quello che questi giovani sotto i trent’anni condividono e che Khan esprime molto bene è come una buona fetta di un’intera generazione rigetti l’idea che la produttività trionfi su tutto.

Lavorare inseguendo le proprie passioni

Cal Newport del The New Yorker in un interessante articolo riprende il messaggio di Khan e degli altri TikTokers che usano l’hashtag “quiet quitters”. “Tanti miei pari, afferma Khan, hanno deciso di respingere la “hustle culture””, la cultura dello sforzo, secondo la quale solo attraverso giornate lavorative infinite e il sacrificio della vita privata è possibile raggiungere il successo. Il significato attribuito al lavoro è legato ad un determinato contesto storico. Ripensando agli anni 40 e 50 del ‘900, il rapporto lavorativo tra il singolo e il padrone o la corporazione era un rapporto basato sulla lealtà, che fa eco alla dialettica del servo e del padrone di Hegel.

La propria fedeltà e dedizione era ricompensato con un lavoro a vita e un senso di appartenenza che giustificava il sacrificio personale come necessario per il bene di un progetto più grande. I Boomers, coloro che sono nati tra il 1946 e il 1964, hanno vissuto le rivoluzioni sociali degli anni 60 e 70, hanno combattuto il conformismo dei propri genitori ormai troppo soffocante e hanno provato alternative rivelatesi fallimentari nell’unione tra realizzazione personale e significato del lavoro.

Solo a metà degli anni ’90, ha iniziato a diffondersi il suggerimento: “fai il lavoro dei tuoi sogni”, un consiglio che potrebbe apparire anacronistico ma che, secondo l’autrice dell’articolo, è invece collocabile in questo periodo specifico. Questo invito è il compromesso con cui i genitori, appartenenti alla generazione dei boomers, esortano i figli millenials a perseguire la piena realizzazione di se stessi senza però rischiare di finire in bolletta. 

Il lavoro oggi

Le crisi economiche che hanno colpito tutti gli stati del mondo hanno però ribaltato i piani, allora riuscire a trovare un lavoro era già un “successo” e la soddisfazione andava cercata altrove. Altri due eventi sono stati decisivi. L’arrivo dei social, che tra le altre cose offrono modelli di vita a cui aspirare e il Covid. 

Questi hanno frantumato le barriere, tra vita reale e digitale nel primo caso, e tra vita lavorativa e vita privata con lo smart working nel secondo. Allora ciò che oggi i giovani millenials e la gen Z sono chiamati a realizzare è la risignificazione del senso del lavoro che non è più compatibile con la realizzazione personale come nel suggerimento “fai il lavoro che ami”, ma deve essere calato nelle possibilità e risorse oggi a disposizione dei giovani.

Essere o lavorare

L’ambita realizzazione di un ideale personale coincide con un certo senso di insoddisfazione. L’ideale è perfetto solo se si mantiene una certa distanza con esso. Una volta raggiunto, l’ideale non è poi così perfetto. La realizzazione personale non può essere valutata in termini quantitativi o in senso prestazionale, dunque la piena realizzazione come effetto del successo lavorativo è una chimera, che può diventare trappola.

Movimenti come quelli del quiet quitting possono allora essere intesi come un coraggioso tentativo delle giovani generazioni di affermarsi, trasgredendo quelli che sono i lasciti delle generazioni precedenti.

Le asserzioni promosse dal movimento sono una risposta attuale delle generazioni più giovani all’interrogativo esistenziale “che vuoi?” Non si tratta più di alienarsi nell’ideale immaginario promosso dalla società della prestazione che pone come obiettivo la rivalità e la sfida, che premia la produttività e l’individualismo, anche a prezzo di sacrifici importanti nella sfera privata. 

Certo, il lavoro richiede sacrifici, ma diventa problematico quando questi sacrifici vengono fatti, senza essere richiesti, per poter dimostrare la totale abnegazione alla causa lavorativa. “Not to go above and beyond” come recita il manifesto del quiet quitting, indica proprio questo aspetto.

Il suo messaggio allora può essere quello di un invito a ripensare la propria identità, mettendo da parte il bisogno di rispondere all’aspettativa della società della prestazione che spinge verso un’ideale individualistico ma omologante, per concentrarsi sui propri bisogni, sempre declinati al singolare.

Quiet quitting come movimento

Questo movimento non costituisce un invito a boicottare il luogo di lavoro, per coloro che sono insoddisfatti delle proprie mansioni o contesti lavorativi. Non è in discussione il principio del lavorare bene e non si tratta di fornire prestazioni inadeguate in contesti lavorativi poco appaganti, un atteggiamento passivo-aggressivo che innesca circoli viziosi da cui è difficile uscire e che rende arduo distinguere il carnefice dalla vittima

Questo movimento al contrario corrisponde ad una più piena assunzione di responsabilità verso se stessi. Chi si riconosce in questi valori può metterlo in pratica in maniera differente, c’è chi lascia il lavoro per uno meno prestigioso ma più flessibile, chi continua lo stesso lavoro ma con obiettivi e soprattutto con una mentalità differenti, meno totalizzanti: ciò che è condiviso è che il lavoro, sebbene rimanga un aspetto importante della vita, non ha il primato rispetto ad altri per assicurare un’esistenza piena e felice.

Questo movimento come altri, ad esempio quello di Greta Thurnber dei “fridays for future”, nati in questi anni grazie all’impegno di giovanissimi, sono la dimostrazione di una presa di coscienza delle recenti generazioni e di una volontà, da parte di queste, di svolgere un ruolo attivo nelle decisioni che pertengono la propria vita e quella collettiva presente e futura. L’impressione è che queste nuove generazioni siano molto più disposti ed inclini a creare un sistema nuovo, di quanto lo siano state le precedenti.

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