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La Cura in Psicoterapia

In questo articolo parleremo della cura in Psicoterapia e del suo svolgimento. Cercherò di rispondere a tutte le domande che mi avete posto. Le riflessioni che seguono sono il frutto delle mie considerazioni derivanti dalla teoria e dalla pratica della psicoterapia ad indirizzo psicoanalitico, fermo restando che ogni pratica psicoterapica è sempre qualcosa che coinvolge almeno una coppia di individui.

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ortoressia

Ortoressia

L’ossessione per il cibo sano L’ortoressia, di cui una traduzione letterale potrebbe essere appetito retto, corretto, è considerata un disturbo del comportamento alimentare.Nonostante la dissonanza cognitiva prodotta dalla presenza della parola corretto nel nome di un disturbo, l’ortoressia può creare grossi impedimenti per chi ne soffre nella quotidianità e, nei casi più gravi, avere anche ripercussioni preoccupanti sulla salute. Che disturbo è l’ortoressia? Infatti, questo disturbo, trae spunto dal desiderio, sano e legittimo, di avere un’alimentazione sana e corretta, che sia garante, in diverso grado, di un’ideale di purezza. La purezza e la contaminazione sono riconducibili alle difese ossessive che, se moderate e contenute, si rivelano, nella quotidianità, fonte di piacere e tranquillità. Nella nostra routine, tutti noi abbiamo quelle azioni che non possiamo non compiere ogni giorno, piccole cose che però danno senso alla nostra realtà e ci danno la giusta carica per affrontare la giornata o la vita. I sintomi dell’ortoressia Possiamo iniziare a parlare di disturbo soolo nel momento in cui queste pratiche da essere qualcosa che aiuta nella giornata (ego sintonici) si rivelano per rigidità e fissità delle interferenze, qualcosa che invece che aiutare si pone come disturbo alla quotidianità (ego distonici). La parola disturbo deriva infatti da dis- (che aumenta di forza) e turbare (confondere, scompigliare, disordinare): un disordine che aumenta di forza.Nello specifico dell’ortoressia, tutto quello che le è peculiare, come la ricerca dei migliori prodotti Bio o di quelli con il più basso apporto di calorie, diventa una lotta infinita. L’aspetto decisionale si allunga a dismisura e si prova colpa ogni qualvolta non si riesce a seguire in maniera religiosa il proprio programma.Nell’ortoressia, come negli altri disturbi del comportamento alimentare il programma della propria dieta quotidiana è il punto più delicato: attorno a questo ruotano molti pensieri ogni giorno e può arrivare ad essere il perno delle giornate, perdendo di vista tutti gli altri aspetti come il lavoro, la famiglia o gli affetti. L’ortoressia ha molti punti in comune con gli altri disturbi alimentari, mentre una sostanziale differenza, a livello sintomatico, tra questa e gli altri DCA, tra cui ad esempio l’anoressia, è la noncuranza per l’immagine del proprio corpo. Chi soffre di ortoressia non ha come prima preoccupazione l’ideale della forma del proprio corpo, bensì l’ideale, del tutto astratto, della salute, della purezza del proprio corpo ottenuta eliminando ogni forma d’impurità. Cause e spiegazioni Le cause del disturbo sono separate dalle motivazioni che spingono qualcuno a voler adottare uno stile di vita che tenga conto di un’alimentazione sana. L’ortoressia diventa problematica solo quando sfugge al controllo. Questo disturbo può diventare problematico se invalida la vita di chi soffre, oltre i sintomi individuali già presi in considerazione, bisogna valutare anche quelli interpersonali. Un semplice invito a cena può arrivare ad essere avvertito con del panico, perché non si potrà prevedere esattamente il pasto che si assumerà. L’ortoressia si inserisce, allora, in quella serie di disturbi che hanno a che fare con il bisogno di controllo. Avere il pieno controllo sulla propria dieta permette di mantenere idealmente il controllo su di sé. Chi soffre di ortoressia o di disturbi analoghi tende a sfogare attraverso il controllo sulla propria dieta tensioni e frustrazione della vita quotidiana. Questa strategia però non riesce a garantire sempre il risultato cercato e sul lungo termine può dimostrarsi controproducente. Possibili soluzioni e considerazioni Una strategia è la modalità con cui si prova ad affrontare un determinato impedimento. L’ortoressia è una strategia che fa parlare di sé nel momento in cui è divenuta perdente. Il confine tra disturbo alimentare e predilezione di una specifica dieta può essere a volte molto sottile. Non è detto che passato un momento stressante il disturbo non rientri spontaneamente. E’ importante riuscire a riconoscere questo limite, che sotto forma di buon senso, è evidente per ognuno di noi e rispettarlo, senza temere di chiedere un aiuto se non siamo in grado di controllarlo da noi. Allo stesso tempo non bisogna per forza abbandonare una condotta che si è rivelata positiva, prima di sfuggire al controllo. Come psicologo, credo che caso per caso bisogni valutare in maniera approfondita le esigenze e le risorse di chi bussa alla mia porta per aiutarlo a trovare un equilibrio meno precario. Disturbi dell’alimentazione Che Cosa sono i disturbi dell’alimentazione? I disturbi alimentari detti anche DCA ( disturbi del comportamento alimentare),  sono tutte quelle problematiche  che concernono il rapporto tra l’individuo ed il cibo.   Questi disturbi alimentari sono caratterizzati da un persistente disturbo dell’alimentazione o di comportamenti connessi all’alimentazione che determinano un alterato consumo o assorbimento di cibo e che danneggiano significativamente la salute fisica o il funzionamento psicosociale. I principali disturbi dell’alimentazione e della nutrizione sono: I danni per la salute Soffrire di questi disturbi può compromettere la vita e il funzionamento di aree fondamentali quali la salute fisica, la salute psicologica, la carriera sia scolastica che lavorativa e le relazioni interpersonali.  Maggiore è la durata della malattia e maggiori saranno le conseguenze sulla vita di chi ne è colpito. E’ fondamentale chiedere aiuto per riuscire a comprendere le cause di un malessere così acuto. Spesso le persone affette da questi disturbi  ricorrono a questi comportamenti alimentari per comunicare un lutto, un trauma o abusi subiti in età precoce e attraverso il controllo del proprio corpo cercano di sopravvivere. Capire le motivazioni profonde di un tale disagio è fondamentale per liberarsi da un peso troppo grande da sopportare. Dal Blog: Disturbi dell’alimentazione

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genitori manipolativi

Genitori manipolativi

I genitori manipolativi sono un tipo di genitore che non vede nel figlio altro che un riflesso di se stesso e che, per questo, impone la sua visione delle cose e del mondo come l’unica degna di valore. Svalutando direttamente o indirettamente ogni tentativo del figlio di potersi separare, di seguire una strada diversa da quella pensata per lui. Quando i genitori sono manipolativi La manipolazione è dunque la messa in atto, da parte del genitore, di influenzare il figlio affinché non si allontani, realmente e simbolicamente, posticipando in maniera indefinita la separazione. Questo comportamento, per quanto può essere realizzato sotto il segno di differenti idee e ideali, ha sempre come epilogo l’imposizione, la prevaricazione sulla spontaneità del figlio, rischiando di ridurne la libertà.  Tale modalità si pone in netta opposizione al cosiddetto “amore incondizionato” che generalmente si attribuisce ai genitori, soprattutto alla madre e specialmente nelle primissime fasi della vita. Lo psicoanalista Massimo Recalcati, a tal proposito, riprendendo l’immagine di madre-coccodrillo introdotta da Jacques Lacan. La madre coccodrillo, tipica del discorso patriarcale, è quella madre che sacrificando in sé ogni aspetto della donna per i propri figli, vuole divorare i propri figli, non essendo disposta a lasciarli andare, a separarsene. Essere genitori I genitori hanno un ruolo centrale per tutta la vita dei propri figli. Sono responsabili della cura dei piccoli per i primi anni di vita, quando l’organismo umano non sarebbe in grado di sopravvivere senza un supporto esterno, periodo in cui la simbiosi tra il piccolo e i genitori è naturale, sarebbe più corretto parlare di parassitismo del piccolo nei confronti del genitore. Con il passare degli anni, questa dipendenza cambia e si rende progressivamente meno necessaria, man mano che il figlio si “soggettiva” ma il legame che si è creato, in positivo e in negativo, non si dissolverà mai. Vorrei inoltre precisare che non tutti i genitori cosiddetti manipolativi soffrono di gravi patologie psichiatriche e non tutti i “malati mentali” che diventano genitori, lo sono in maniera inadeguata. Con il passare degli anni, questa dipendenza cambia e si rende progressivamente meno necessaria, man mano che il figlio si “soggettiva” ma il legame che si è creato, in positivo e in negativo, non si dissolverà mai. Vorrei inoltre precisare che non tutti i genitori cosiddetti manipolativi soffrono di gravi patologie psichiatriche e non tutti i “malati mentali” che diventano genitori, lo sono in maniera inadeguata. Il desiderio dell’altro Skinner, il padre del behaviourismo, negli anni ’30 descriveva un bambino come una pagina bianca, che poteva esser scritta a suo piacimento attraverso rinforzi e punizioni. Questa prospettiva non tiene in considerazione il desiderio. Lacan, invece lo pone al centro della sua teoria, secondo cui il desiderio dell’uomo è il desiderio dell’altro. Ogni bambino vuole ricevere amore dai propri genitori, ne ha bisogno. L’amore non è sempre incondizionato, allora per ottenerlo, si offre al genitore quanto si aspetta, per esempio andando bene a scuola o riuscendo bene in uno sport. Tanti esempi illustri possono corroborare questa tesi. Spesso troviamo nella vita delle celebrità storie in cui il desiderio di un genitore si è imposto prepotentemente su quello del figlio, l’aspettativa che questi diventasse un grande artista o sportivo, diventava l’aspetto centrale della relazione genitore-figlio – mi torna in mente il film King Richard, sul padre delle famose tenniste, le sorelle Williams. E’ vero che tutte queste persone avevano un talento eccezionale che poi li ha resi immortali, ma senza il sostegno imposto dal genitore chissà cosa avrebbero scelto di fare. Essere il migliore in qualcosa che non hai scelto è una fortuna o una condanna? Come capire se si tratta di manipolazione? Sono state individuate numerose tecniche e tattiche annoverabili al campo della manipolazione, che però non è detto che sia consapevole, anzi quasi mai lo è. Possiamo definire la manipolazione, nel contesto dei genitori manipolativi, come il risultato nel tempo di un certo comportamento e/o tipo di richiesta fatta dal genitore al figlio. Queste richieste possono essere dirette o indirette, vittimistiche e legate al senso di colpa. La minimizzazione tende a ridurre la portata del vissuto dell’altro, non tenendone debitamente conto. Dire ad un’altra persona, “stai esagerando” implica che non si considera il suo punto di vista. La stessa frase anche se detta solo per tranquillizzare è un tentativo di suggestione, dato che si cerca di influenzare la percezione dell’altro. La definirei manipolazione, solo quando questa suggestione è finalizzata all’imposizione su e alla negazione dell’altro. Questa negazione è il denominatore comune della manipolazione, come lo si vede bene nei ricatti emotivi. Vediamone alcuni: Richiesta diretta: “Se mi vuoi bene, allora fallo” Richiesta indiretta: “Se uscirai, starò in pensiero tutta notte”, Vittimismo: “Prima mi ha lasciato tuo padre, e ora tu te ne vuoi andare, sono destinata a essere sola”, Senso di colpa: “Dopo che sei nato tu, non sono più riuscita a dimagrire”. Questo tipo di messaggi veicolano un’imposizione percepita come un dovere, che impedisce di sentirsi liberi di agire secondo il proprio desiderio. Ne conseguono il sacrificio di sé o di un profondo senso di colpa se si tenta di venir meno a queste richieste ma non si è elaborata una sana distanza. Il figlio può essere trattato come l’oggetto su cui scaricare frustrazioni e risentimenti, in virtù di un rapporto che non è paritario e che, proprio per questo, permette di far leva su una minore resistenza da parte di chi la subisce. Possibili soluzioni La distanza fisica che si pone con la famiglia di origine è un’indicazione interessante del bisogno immaginario di vicinanza o di lontananza. C’è chi si trasferisce a decine di migliaia di chilometri di distanza, chi vive due piani più sotto o chi non se ne allontana mai. La distanza fisica non è però risolutiva, anche da lontano un genitore può essere molto presente. Si tratta piuttosto di poter mettere una distanza simbolica come esito del processo di individuazione soggettiva. Smettere di essere figlio, con tutte le conseguenze che ciò comporta, è un passaggio fondamentale per poter sentirsi liberi verso se

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sindrome dell'impostore

Sindrome dell’impostore

Con sindrome dell’impostore si definisce un quadro sintomatico sostenuto alla base dalla convinzione di alcune persone, nella sfera lavorativa, di non essere abbastanza dotati delle qualità e capacità richieste. Ogni successo lavorativo è dunque vissuto con disagio,  perché non lo si percepisce meritato e al contempo alimenta l’idea di star prendendo in giro gli altri, per cui prima o poi si verrà smascherati. Storia della sindrome dell’impostore Le prime psicologhe che hanno parlato della sindrome dell’impostore sono le dottoresse americane Pauline Rose Clance e Susanne Imes. Alla fine degli anni settanta hanno scritto una serie di articoli su questa sindrome, dopo averla individuata nel loro lavoro nei college con studenti e professori. Ciò che è emerso frequentemente è che alcune di queste persone erano a disagio con i propri successi lavorativi. Il lavoro d’indagine ha permesso di schematizzare una serie di sintomi comuni a chi aveva queste convinzioni. Sintomi I sintomi della sindrome dell’impostore sono: Considerazioni Questo complesso sintomatico è insidioso: ogni esperienza viene interpretata secondo uno schema rigido, per cui una prova non superata o una presentazione mal riuscita saranno la conferma della propria incapacità. Risultati positivi, come una promozione o una buona valutazione invece saranno attribuiti a circostanze fortuite e casuali, o peggio, saranno frutto di una condotta scorretta. A tal proposito, le psicologhe hanno notato come un comportamento frequente tra queste pazienti fosse quello di “psicanalizzare” i loro esaminatori o superiori e di offrir loro ciò che volevano sentirsi dire. Altre volte utilizzavano il proprio charme o sex appeal per accattivarsi chi avevano di fronte. Questi comportamenti, che avevano il loro ruolo più o meno marginale nel successo ottenuto, li portavano però mettere in dubbio le proprie capacità intellettuali e non sentirsi meritevoli del successo, ottenuto, a parer loro, solo con l’inganno. La forte ambizione di questi soggetti risulta controproducente perché si presenta come un padrone incontentabile e dunque impossibile da soddisfare. Cause Facendo riferimento all’articolo delle psicologhe, le possibili cause per questo disturbo sono rintracciabili in due tipici funzionamenti familiari. Il primo vede la presenza di un fratello/sorella che viene investito dai genitori dell’attributo di “intelligente” e quindi il soggetto assume su di sé l’identità di “meno intelligente”, non solo, anche la famiglia tende a confermare questa identità, con un atteggiamento di indifferenza/svalutazione/insoddisfazione verso l’aspetto intellettivo del soggetto. Questo schema è generalizzabile anche ad altri individui, come un caro amico, un compagno o una persona esterna, purchè goda della massima stima familiare riguardo all’intelligenza, o ad altre caratteristiche “desiderabili”. Ciò può produrre un alter-ego immaginario con cui ogni confronto è perso in partenza. Nel secondo modello familiare individuato dalle autrici, abbiamo uno scenario del tutto differente. Il paziente è considerato dalla famiglia perfetto sotto ogni aspetto: ha tutte le qualità necessarie per ottenere qualsiasi cosa voglia e  la sua storia infantile è contraddistinta da successi precoci e altre meraviglie. Con il peso di questa enorme aspettativa nei propri confronti e l’incontro con una realtà diversa da quella familiare, meno dorata e più concreta, la possibilità di fallire o sbagliare può essere talmente spaventosa da indurre la persona a mettersi in dubbio. Ci si accorge che non sempre si ottengono ottimi risultati senza impegno, che il giudizio dell’altro può essere difforme dal proprio. Vedere altri riuscire meglio, notare che si fa grande fatica ad affrontare alcuni compiti può spingere alla rinuncia. Tirarsi indietro o mentire, quando non si è più sicuri delle proprie capacità, sono modalità per mantenere intatta l’aspettativa dell’Altro ma con il prezzo di dubitare di se stessi. Un punto di vista di altri tempi L’articolo delle due psicologhe americane è molto esaustivo nelle considerazioni psicologiche, ma essendo stato scritto nel 1978, ha dei limiti dal punto di vista dell’analisi sociologica. Le autrici parlano di una società, almeno dal punto di vista lavorativo, patriarcale, in cui le donne sono portate a ritenersi meno intellettivamente dotate a causa del pensiero corrente preponderante. Si deve a questo allora la prevalenza di questo complesso tra le donne e i maschi con tratti femminini: gli uomini, al contrario, tendono a imputare i successi alle proprie capacità e gli insuccessi al caso o a errori dell’altro. Un atteggiamento antitetico a quello di chi soffre della sindrome dell’impostore. Oggi invece notiamo questo atteggiamento sia tra gli uomini che tra le donne, probabilmente in seguito allo sgretolamento negli ultimi 50 anni della logica patriarcale nella divisione dei ruoli di genere. Oggi la sindrome dell’impostore è più democratica, colpisce tutti. Possibili Soluzioni Un percorso psicoterapeutico può aiutare a rimettere in discussione la propria conoscenza di se stessi e le modalità di interazione con l’ambiente sociale. La psicoterapia può aiutare a rimettere in discussione il proprio punto di vista sulle cose che ci capitano, attraverso un lavoro di messa in discussione personale. Non è facile abbandonare la strada che siamo abituati a percorrere e che conosciamo bene, ma perché privarci della possibilità di percorrerne un’altra più soddisfacente? Ultimi Articoli

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Psicoterapia e Psicoanalisi: Domande Frequenti

Introduzione Se si sta considerando la psicoterapia a Milano, si potrebbe avere alcune domande frequenti in mente. Come psicoterapeuta con esperienza nel campo, desidero fornire risposte chiare e rassicuranti. Continua a leggere per ottenere informazioni sui compiti dello psicoterapeuta, la durata della terapia, i potenziali benefici e le differenze tra psicoterapia e psicoanalisi. Di cosa si occupa uno psicoterapeuta durante la psicoterapia? Lo psicoterapeuta si occupa di supportare le persone che chiedono aiuto nel trovare soluzioni ai loro disagi. L’obiettivo non è fornire risposte immediate, ma piuttosto esplorare insieme al paziente per ottenere un cambiamento. La psicoterapia è un processo che mira a cambiare prospettive, abbandonare schemi comportamentali o di pensiero limitanti e impegnarsi attivamente per affrontare i disagi. Per quanto tempo bisogna andare dallo psicoterapeuta? La durata della terapia dipende dagli obiettivi individuali. Non tutti cercano una psicoanalisi a lungo termine che richiede anni di lavoro e più sedute settimanali. Alcuni potrebbero desiderare risolvere un sintomo specifico che causa disagio, il che potrebbe richiedere solo alcune sedute o pochi mesi. Una volta risolto il sintomo, è possibile decidere se continuare con un lavoro più introspettivo o interrompere la terapia. Non rischio di scoprire qualcosa di me che potrebbe farmi male? Prendere consapevolezza dei propri vissuti ed emozioni può inizialmente provocare disagio, ma è sempre un beneficio. Gran parte della sofferenza che sperimentiamo deriva dalla mancanza di consapevolezza di alcuni aspetti di noi stessi. La psicoterapia offre l’opportunità di esplorare e riconoscere questi aspetti per favorire la crescita personale. Se poi non ho niente da dire allo psicoterapeuta durante la psicoterapia? È comune avere paure come il timore di non avere nulla da dire durante la terapia. Queste paure possono derivare dall’evitare una situazione nuova e misteriosa come la psicoterapia. Tuttavia, la terapia richiede impegno e lavoro personale per ottenere risultati positivi. Lo psicoterapeuta è specializzato nel favorire questo processo senza sostituirsi al paziente, ma piuttosto facilitando la crescita personale. Che differenza c’è tra la psicoterapia e la psicoanalisi? La psicoterapia è un termine più ampio che comprende diversi approcci terapeutici, tra cui la psicoterapia psicodinamica, cognitivo-comportamentale e sistemico-relazionale. La psicoanalisi è una forma specifica di psicoterapia basata sul lavoro di Freud, che si concentra sull’esplorazione dei processi inconsci e richiede un percorso più lungo e approfondito. Quando decido che è tempo di concludere? Il percorso terapeutico può essere interrotto in qualsiasi momento. Tuttavia, è auspicabile concordare con lo psicoterapeuta la decisione di interrompere la terapia e discutere di eventuali pensieri o dubbi che potrebbero sorgere. Anche se i primi miglioramenti possono far sorgere il desiderio di concludere, è importante condividere tali pensieri in seduta per prendere una decisione informata. Conclusioni: Spero che queste risposte alle domande frequenti sulla psicoterapia ti abbiano fornito una maggiore comprensione di cosa aspettarti durante il percorso terapeutico. Lo psicoterapeuta a Milano può offrirti supporto e orientamento nel tuo processo di cambiamento e crescita personale. Non esitare a contattarlo per ulteriori informazioni e per prenotare una consulenza.

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quiet quitting

Quiet quitting

Che cos’è il quiet quitting? Il quiet quitting è l’idea di non prendere troppo seriamente il proprio lavoro, di non sacrificarsi indefessamente per superare ogni possibile aspettativa, di non fare del lavoro l’unico scopo di vita, a scapito di tutto il resto.  Il senso di fondo è che non si coincide con l’ideale lavorativo e non si può trarre da questo il proprio valore.  Quiet quitting e i social Secondo un sondaggio americano sul benessere lavorativo, il 54% degli intervistati nati dopo il 1989 – quindi tutti appartenenti alle categorie dei giovani millennials e della gen Z – risulterebbe not engaged nel proprio lavoro. Per non ingaggiato si intende un lavoratore che si limita a presentarsi al lavoro e a fare il minimo indispensabile. Questo dato è allineato con il “movimento” del quite quitting (letteralmente uscire in silenzio) nato da un hashtag che gira sui social, soprattutto TikTok, a partire da metà 2022 e che ha reso alcuni video virali, come quelli del ventiquattrenne ingegnere newyorchese Zaid Khan che, tra i primi, ha manifestato il suo intento di fare il giusto indispensabile sul lavoro, per concentrarsi sulla vita al di fuori. Nei video, ispirati al quite quitting, si possono vedere i protagonisti godersi belle giornate, fare ciò che vogliono oppure anche solo permettersi di perdere tempo. Sullo schermo appaiono queste scritte: “Quite quitting is idea to not go above and beyond. Work is not your life. Your worth is not defined by your productive output”. Oltre la produttività Sebbene la comunità scientifica non sia interessata, o almeno non ancora, a questo fenomeno, il quite quitting ha stimolato numerosi articoli su importanti giornali. Sul Wall street Journal Lindsay Ellis e Angela Yang riportano numerosi esempi di giovani sotto i trent’anni che esauriti dal proprio spingersi oltre le aspettative di colleghi e boss, realizzano come la vita possa essere più soddisfacente se si separano vita lavorativa e vita privata, con un beneficio per quest’ultima a scapito della prima. Alcuni cambiano completamente vita, cercando lavori meno pagati o meno prestigiosi, ma con maggior margine di libertà personale, altri semplicemente cambiano il proprio rapporto con il lavoro e si accorgono che così facendo, le cose vanno meglio, anche il lavoro stesso. Quello che questi giovani sotto i trent’anni condividono e che Khan esprime molto bene è come una buona fetta di un’intera generazione rigetti l’idea che la produttività trionfi su tutto. Lavorare inseguendo le proprie passioni Cal Newport del The New Yorker in un interessante articolo riprende il messaggio di Khan e degli altri TikTokers che usano l’hashtag “quiet quitters”. “Tanti miei pari, afferma Khan, hanno deciso di respingere la “hustle culture””, la cultura dello sforzo, secondo la quale solo attraverso giornate lavorative infinite e il sacrificio della vita privata è possibile raggiungere il successo. Il significato attribuito al lavoro è legato ad un determinato contesto storico. Ripensando agli anni 40 e 50 del ‘900, il rapporto lavorativo tra il singolo e il padrone o la corporazione era un rapporto basato sulla lealtà, che fa eco alla dialettica del servo e del padrone di Hegel. La propria fedeltà e dedizione era ricompensato con un lavoro a vita e un senso di appartenenza che giustificava il sacrificio personale come necessario per il bene di un progetto più grande. I Boomers, coloro che sono nati tra il 1946 e il 1964, hanno vissuto le rivoluzioni sociali degli anni 60 e 70, hanno combattuto il conformismo dei propri genitori ormai troppo soffocante e hanno provato alternative rivelatesi fallimentari nell’unione tra realizzazione personale e significato del lavoro. Solo a metà degli anni ’90, ha iniziato a diffondersi il suggerimento: “fai il lavoro dei tuoi sogni”, un consiglio che potrebbe apparire anacronistico ma che, secondo l’autrice dell’articolo, è invece collocabile in questo periodo specifico. Questo invito è il compromesso con cui i genitori, appartenenti alla generazione dei boomers, esortano i figli millenials a perseguire la piena realizzazione di se stessi senza però rischiare di finire in bolletta.  Il lavoro oggi Le crisi economiche che hanno colpito tutti gli stati del mondo hanno però ribaltato i piani, allora riuscire a trovare un lavoro era già un “successo” e la soddisfazione andava cercata altrove. Altri due eventi sono stati decisivi. L’arrivo dei social, che tra le altre cose offrono modelli di vita a cui aspirare e il Covid.  Questi hanno frantumato le barriere, tra vita reale e digitale nel primo caso, e tra vita lavorativa e vita privata con lo smart working nel secondo. Allora ciò che oggi i giovani millenials e la gen Z sono chiamati a realizzare è la risignificazione del senso del lavoro che non è più compatibile con la realizzazione personale come nel suggerimento “fai il lavoro che ami”, ma deve essere calato nelle possibilità e risorse oggi a disposizione dei giovani. Essere o lavorare L’ambita realizzazione di un ideale personale coincide con un certo senso di insoddisfazione. L’ideale è perfetto solo se si mantiene una certa distanza con esso. Una volta raggiunto, l’ideale non è poi così perfetto. La realizzazione personale non può essere valutata in termini quantitativi o in senso prestazionale, dunque la piena realizzazione come effetto del successo lavorativo è una chimera, che può diventare trappola. Movimenti come quelli del quiet quitting possono allora essere intesi come un coraggioso tentativo delle giovani generazioni di affermarsi, trasgredendo quelli che sono i lasciti delle generazioni precedenti. Le asserzioni promosse dal movimento sono una risposta attuale delle generazioni più giovani all’interrogativo esistenziale “che vuoi?” Non si tratta più di alienarsi nell’ideale immaginario promosso dalla società della prestazione che pone come obiettivo la rivalità e la sfida, che premia la produttività e l’individualismo, anche a prezzo di sacrifici importanti nella sfera privata.  Certo, il lavoro richiede sacrifici, ma diventa problematico quando questi sacrifici vengono fatti, senza essere richiesti, per poter dimostrare la totale abnegazione alla causa lavorativa. “Not to go above and beyond” come recita il manifesto del quiet quitting, indica proprio questo aspetto. Il suo messaggio allora può essere quello di un invito a ripensare la

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tocofobia -paura del parto

Tocofobia – la paura del parto

Che tipo di disturbo è la tocofobia? La tocofobia è letteralmente “paura del parto”: quando l’ansia o la paura della morte durante il parto dominano la gravidanza e sono talmente intensi che il parto è evitato, allora si parla di tocofobia. Questa condizione può essere così invalidante da spingere le donne che ne soffrono a rinunciare ad avere figli. Per esempio Helen Mirren, la nota attrice inglese, ha raccontato di essere rimasta talmente impressionata e turbata dalla visione di un video sul parto, ai tempi della scuola, da non aver potuto mai più avere nulla a che fare con tutto ciò che riguarda lo riguardasse. Le forti emozioni e i pensieri negativi correlati all’idea di questo evento diventano un ostacolo insormontabile per alcune donne che decidono di non portare a termine la gravidanza. Cenni storici sulla tocofobia, paura del parto Tra i primi a scrivere di questo disturbo è stato l’ostetrico tedesco Osiander, nel 1797, a proposito di donne che si erano tolte la vita a causa di questa grave paura. Poco più di cinquant’anni dopo, il dott. Louise Victor Marcé definisce le donne incinta che soffrono di tocofobia come “profondamente convinte che esse moriranno… L’idea diventa fissa nella loro testa e scatena una melanconia che regna su tutti i loro pensieri”. Centosessant’anni anni dopo i progressi della medicina moderna rendono questo timore meno fondato ma non per questo meno frequente, anzi le ricerche evidenziano come negli ultimi 20 anni questo disturbo sia molto più diffuso che in passato.  La situazione oggi In Europa l’8% delle donne ne soffrono. In letteratura non esiste un consenso unanime sulla definizione di tocofobia, che può essere definita talvolta come una “grave paura del parto”, altre invece come “un’irragionevole ansia per il parto”. Al di là di come viene definita, questo disturbo è invalidante perché, quando non impedisce la gravidanza, può rovinare questo momento, che dovrebbe invece portare tanta felicità. Inoltre, essendo associata a possibili gravi condizioni successive come depressione post-partum, ridotti legame infantile e attaccamento, oltre che effetti emozionali e cognitivi a lungo termine sul bambino, la tocofobia è un’importante condizione su cui va posta la giusta attenzione e trattata adeguatamente. Le cause della tocofobia – paura del parto In letteratura la tocofobia è associata a: La presenza di queste caratteristiche o esperienze aumentano la possibilità dell’insorgenza della fobia. La tocofobia, inoltre, è più comune nelle donne con personalità ossessivo/compulsiva che mostrano comportamento ossessivo riguardo alla pulizia e alla contaminazione e ricercano il parto e l’esperienza materna “ideali”.  Questa fobia può essere suddivisa in tre tipi: quella primaria, quando la donna è nullipara, secondaria quando ha già avuto un parto – spesso traumatico; si può inoltre considerare, in alcuni casi, la tocofobia come sintomo scaturito da una depressione prenatale. I sintomi e possibili rimedi per la tocofobia Questa fobia, come già riportato, si manifesta con sentimenti di ansia, preoccupazione, terrore e paura per il parto, per la possibilità di non sopravvivere o anche per l’eventualità di mettere al mondo un bambino sofferente o con malformazioni. Oggi, grazie al progresso scientifico, queste paure possono essere notevolmente ridimensionate. Grazie ai moderni test ed esami che sono in grado di predire con grande precisione – percentuali superiori al 95% – eventuali anomalie del feto. Per quanto riguarda la paura di morire o di soffrire troppo a causa del parto, le tecniche oggi diffuse permettono di superarla. La richiesta del parto cesareo è infatti molto cresciuta in questi ultimi anni, il 20% delle donne britanniche, ad esempio, lo richiede senza indicazioni mediche od ostetriche. Il cesareo, sebbene possa essere una soluzione a questa paura, può rivelarsi controproducente. Non sempre, infatti, è possibile offrire, soprattutto nella sanità pubblica, questo intervento quando viene richiesto. La conseguenza di tale rifiuto è associata a maggiori complicazioni e disturbi post-partum nelle donne con tocofobia. La prevenzione è sempre la miglior cura La possibilità di individuare e trattare a livello psicologico questo tipo di paura è importantissimo. Così sarà possibile agire in maniera diretta sulle cause psicologiche e non su quelle, meno controllabili, legate agli aspetti medico-sanitari del parto. Inoltre un adeguato trattamento psicologico porterà benefici non solo sul parto, ma anche nel periodo successivo, decisivo per la possibilità di instaurare un legame tra madre e figlio. La paura del parto, come abbiamo visto, spesso si associa a esperienze traumatiche e/o a una scarsità di legami sociali e affettivi solidi e supportivi. Quando siamo soli, è normale essere più spaventati da ciò che non conosciamo o da ciò che, per definizione, sappiamo che è doloroso o causa di sofferenza. In questo caso, per una persona che non può contare su altri, non è solo il parto a destare preoccupazione, ma tutta l’incertezza rispetto al futuro, considerando la responsabilità per la creatura che verrà al mondo.  Al di là poi degli aspetti pratici e concreti, una gravidanza ha un impatto molto forte per una donna, la porta a interrogarsi sulla propria identità e a doverla rimettere in discussione. La fobia, può dunque essere un segnale di allarme per questo movimento soggettivo che ogni futura mamma è chiamata a compiere.  L’importanza di potersi fidare Sebbene ogni caso sia unico perché ogni persona è unica, la possibilità di potersi appoggiare a figure mediche e sanitarie verso cui si nutra fiducia e stima è importantissimo in questo percorso, così come la possibilità di confrontarsi con professioni o altre persone nelle stesse condizioni come succede nei corsi pre-parto. Questi sono strumenti importantissimi messi a disposizione delle persone per affrontare un evento tanto ad alto impatto  quanto – si augura – felice. La possibilità di rivolgersi ad uno psicoterapeuta è consigliata quando ci si accorge di essere troppo spaventate o incerte sulle personali capacità di gestire questa situazione. Il compito dello psicoterapeuta sarà di aiutare la paziente a costruire quegli strumenti mentali per poter affrontare in autonomia il lieto evento, ridimensionando la necessità di ricorrere/dipendere da aiuti esterni e permettendo di poter costruire un progetto futuro che trasformi l’ansia in aspettativa positiva e realistica. Dal Blog: Articoli correlati

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gelosia

Gelosia

Che sentimento è la gelosia? La gelosia è un sentimento indotto dal timore di poter perdere, a causa di un terzo, qualcuno che per noi è molto importante. Questo particolare sentimento colora le relazioni affettive e in special modo quelle amorose. Possiamo distinguere tre tipi di gelosia: quella normale, quella ossessiva e quella delirante. Gelosia sana Aver paura di perdere qualcuno è indice del fatto che a quel qualcuno non si è per nulla indifferenti. Per questo, una quota accettabile di gelosia è da considerarsi in fondo anche piuttosto sana. Gelosia ossessiva La gelosia ossessiva è, invece, già al di là di quanto può definirsi “normale”. Questo tipo di gelosia affonda le sue radici nel dubbio profondo della persona circa la sua insicurezza nel potersi fidare dell’Altro e di se stesso. Implica la ricerca costante di rassicurazioni e conferme sul fatto che il partner non l* tradisca. Non appena un terzo si profila nel contesto della coppia per il geloso ossessivo si scatena l’inferno. Questi fa molta fatica a reggere la presenza di un terzo sulla scena e ineluttabilmente scatta la competizione e il controllo sul partner. Il controllo, unico strumento che dà un po’ di tregua ai pensieri, non funziona mai a lungo, perché crea assuefazione, non è mai abbastanza e si cerca sempre di più. Per contro, il controllo fa sentire l’altro oppresso e privato della propria libertà, condizioni che non possono garantire la felicità in nessun caso. Gelosia delirante Il delirio di gelosia è lo stato più grave. Il dubbio lascia il posto alla certezza. Spunti paranoidi o paranoici sono molto frequenti in questi casi.  Si può credere che il partner sia in combutta con un terzo, magari un collega o un amico, per prendersi gioco del soggetto. Non si tratta più solo del timore di perdere qualcuno importante, ma c’entra con l’idea che il soggetto stesso ha di sé e di come si sente visto e l’altro è simbioticamente associato al soggetto stesso. Va da sé che questi sono i casi più gravi, in cui il controllo è maniacale e comunque impossibile da soddisfare. Sono casi in cui il termine della relazione e la separazione non possono essere accettati perché, il partner è al contempo il soggetto stesso in una deriva fusionale ed è possesso del soggetto. Per questo, purtroppo, nei casi di cui leggiamo negli articoli di cronaca, gli uomini di questo genere, quando lasciati, arrivano a gesti estremi, perché non tollerano che il partner, che considerano qualcosa di loro possesso, possa staccarsi. Oltre questi gradi possibili di gelosia, è possibile distinguere ad esempio diversi tipi di gelosia in base all’oggetto o all’origine di questo sentimento. Gelosia retroattiva Per alcune persone un ex diventa oggetto di una gelosia bruciante, un pensiero fisso. Sono elevati al rango di rivali d’amore, anche se sono sposati o comunque non mostrano alcun interesse. Questo succede perché hanno già vissuto una storia insieme e per questo, nel confronto con loro, ci si sente sconfitti. Questa dinamica non ha nulla di razionale, è bensì affettiva. L’ex è identificato in maniera inconsapevole al proprio ideale. Se è stato degno di essere oggetto dell’amore di chi io amo, allora deve essere speciale. Deve avere ciò che a me manca affinché anche io possa essere speciale. Secondo questo ragionamento, l’ex, che più che essere il vero ex è l’ideale-rivale del geloso, incarna l’incubo peggiore in quanto è lo specchio del soggetto, perché condivide la stessa posizione, ma con in più ciò che lui sente gli manca. Di solito, questa gelosia si limita al periodo iniziale del rapporto, quando il sentimento non si è del tutto consolidato e affonda nell’insicurezza del soggetto circa il proprio valore, nel confronto percepito con gli altri. Gelosia proiettiva Secondo Freud, questo tipo di sentimentoè relativa alle tendenze, messe in pratica o meno, che il soggetto geloso prova, ma che poi proietta sul partner. Una sorta di contrappasso per cui questi soggetti che tradiscono o vorrebbero tradire, si immaginano lo stesso tipo di comportamento da parte del partner. La gelosia è dunque il risultato della proiezione della propria tendenza all’infedeltà. Alcune considerazioni generali sulla gelosia e sull’amore La gelosia affonda in un’insicurezza che è tanto umana, quanto prerogativa specifica della condizione amorosa. Secondo Freud, in un’ottica edipica, la gelosia è legata al sentimento di esclusione rispetto all’amore della coppia genitoriale, da cui inevitabilmente ci si sente tagliati fuori. Alla base c’è paura di esclusione e di abbandono che però non vanno letti come un limite. L’amore si basa sulla mancanza e non si ama davvero se non si è capaci di tollerarla. Un detto giapponese dice che il vero amore è essere felici per chi si ama anche se questi non vuole noi, ma qualcun altro. Per amare bisogna essere disposti a perdere, almeno consapevoli che esiste questa possibilità. La gelosia, nella sua forma più patologica, è in profonda antitesi con ciò. E’ puro possesso perché riduce l’Altro ad oggetto di cui disporre come si vuole. Privare qualcuno della libertà, della spontaneità, della propria soggettività è un atto che non può definirsi d’amore. E’ comprensibile accettare che il partner possa essere geloso in virtù di sue particolari difficoltà o fragilità, ma se questa gelosia diventa un ostacolo ad una vita piena e felice, forse è il caso di capire se è il caso di proseguire la relazione. Articoli sulle relazioni

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Uscire dalla dipendenza affettiva

Uscire dalla dipendenza affettiva: La cura della dipendenza affettiva si basa su una serie di colloqui psicologici volti a comprendere la natura del problema e le sue cause profonde. L’obiettivo principale è raggiungere una maggiore serenità e ricominciare a vivere la propria vita con una nuova consapevolezza. Il metodo utilizzato per affrontare la dipendenza affettiva è quello psicoanalitico, un approccio che trae origine dal lavoro di Sigmund Freud e che nel corso del secolo scorso è stato rivisto, integrato con altre discipline e approfondito da Jacques Lacan. Attraverso l’analisi e la ricostruzione della storia del paziente, si aiuta il individuare la chiave per decifrare i sintomi e raggiungere una completa remissione. La psicoterapia ad indirizzo analitico si configura come uno strumento valido ed efficace per affrontare e superare i sintomi della dipendenza affettiva e di altri disturbi contemporanei. I percorsi terapeutici di questo tipo prevedono solitamente una seduta settimanale, ma la durata può variare in base alla persistenza del sintomo, alla tenacia delle resistenze e alla volontà del paziente di approfondire le proprie dinamiche psichiche. Che cos’è la dipendenza affettiva? La dipendenza affettiva è considerata una delle nuove forme di dipendenza, in cui una persona non dipende da una sostanza, ma da una relazione patologica. Questo disturbo comporta una modalità di vivere la relazione in cui il soggetto nega i propri bisogni e spazi personali, concentrandosi esclusivamente sulla relazione stessa come unico scopo di vita. Tuttavia, è possibile guarire dalla dipendenza affettiva, e intraprendere un percorso psicologico può rappresentare un passo fondamentale per superarla. La dipendenza affettiva ha le sue radici spesso nell’esperienza di vita e nei legami familiari del soggetto. Un percorso individuale consente di prendere consapevolezza e liberare sentimenti repressi o traumi vissuti. All’interno di uno spazio di riflessione protetto, in cui l’ascolto empatico e privo di giudizio è garantito dal segreto professionale, è possibile affrontare ed elaborare gli eventi significativi che hanno segnato la vita di ciascuno in modo unico. Presso il mio studio, situato a Milano in Via Giorgio Washington 14, offro uno spazio di riflessione sicuro e protetto. Qui, si è invitati a parlare liberamente, in un contesto di ascolto empatico e privo di giudizio. Il segreto professionale è garantito per tutelare la tua privacy e creare un ambiente di fiducia. Sono il Dott. Vito Iannelli, psicoterapeuta e psicoanalista iscritto all’albo dei psicologi della Lombardia con il numero 15557. Con la mia esperienza e professionalità, sono qui per guidarti nel tuo percorso di guarigione dalla dipendenza affettiva e nel raggiungimento di una vita autentica e appagante.

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Sindrome da Burnout

Che cos’è la sindrome da Burnout? In inglese “to burn out” significa esaurire, la sindrome da burnout è l’esaurimento da lavoro. Con questa sindrome si inquadrano tutti quei sintomi che si presentano quando una persona non riesce più ad affrontare il carico legato al proprio lavoro. Può avere serie ripercussioni sull’equilibrio psicofisico di chi ne soffre e richiede un intervento rapido, pena il rischio di cronicizzazione. Sintomi della sindrome da Burnout Sintomi principali I sintomi possono essere molteplici, legati ad entrambe le sfere psicologica o fisica. I sintomi principali, riconosciuti dall’organizzazione mondiale della sanità sono legati alle difficoltà rispetto al lavoro: sensazione di sfinimento, aumento di distacco mentale e cinismo rispetto al proprio lavoro oltre ad un calo dell’efficienza lavorativa. Sintomi fisici Inoltre, come sintomi fisici possono presentarsi cefalee, stanchezza, disturbi del sonno, tensioni, disturbi gastrointestinali e tachicardia. Sintomi psicologici Dal punto di vista psicologico, invece, si possono esperire calo di fiducia in se stessi, vuoto interiore, maggiore vulnerabilità in caso di delusioni e perdite, sempre minore soddisfazione sul lavoro a fronte di un’elevata sensibilità allo stress. Il Burnout spinge verso un progressivo raffreddamento ed estraniamento verso la propria occupazione e il suo contesto, che può sfociare verso una deriva cinica o francamente depressiva. Decorso Questi sintomi si sviluppano nel tempo, spesso è possibile notare un grande investimento iniziale di energie e dedizione verso il lavoro. A fronte di ciò, l’eccessivo sforzo e le frizioni con il contesto possono, nel tempo, indurre spossatezza e un sentimento costante di stanchezza. Il protrarsi di queste condizioni difficili ha conseguenze sull’umore e sulla motivazione dell’individuo, tanto da indurre sentimenti negativi quali delusione e rassegnazione. Questo decorso è un tipico circolo vizioso, per ciò è tanto più importante intervenire tempestivamente per evitare sofferenze sempre maggiori e il rischio di cronicità. Cause della sindrome da Burnout Le cause della sindrome da burnout sono legate sia a caratteristiche personali che al contesto lavorativo.  Aver difficoltà nel delegare, nel dire di no alle richieste dei superiori o dei colleghi, oppure impegnarsi eccessivamente, essere perfezionisti, avere aspettative e/o pretese troppo alte sono fattori personali di pregio ma anche di fragilità. Qualora spinti troppo in là rispetto alle capacità di resistenza della persona, avranno un peso decisivo nello sviluppo del burnout. D’altra parte, se il contesto non tutela i lavoratori, ma anzi si distingue per sovraccarico di lavoro, mancato riconoscimento dei meriti personali, per la presenza di mobbing e per un’atmosfera generale di ingiustizia e noncuranza per i dipendenti, sarà terreno fertile per le sindromi da burnout.  Le caratteristiche personali e ambientali sono molto intrecciate e concorrenti, per questo è necessario dare il giusto peso ad entrambe. Trattamento L’intervento, nel caso della sindrome da burnout, ha tanto più effetto quanto più è tempestivo. Per questo è necessario che chi inizia ad avvertire i sintomi, si renda consapevole del proprio malessere e agisca di conseguenza. L’unico modo per evitare che il circolo vizioso si acuisca e cronicizzi è fermarsi e prendersi del tempo per capire come trasformarlo in un circolo virtuoso. Non esistono soluzioni preconfezionate, ognuno è chiamato a trovarsi la propria, ma questa ricerca deve essere la priorità, condivisa con i propri cari e/o con i colleghi. Il ricorso ad uno specialista, inoltre, può essere un valido aiuto per questo disturbo. La psicoterapia può aiutare a prendere consapevolezza dei propri limiti e si offre come spazio dove poter dar voce ai propri bisogni autentici, molto spesso silenziati da tutte le richieste che ogni giorno ci schiacciano. Potrebbe interessare anche:

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love bombing

Love bombing

Che cos’è il love bombing? Con la definizione di Love bombing si identifica la strategia manipolatoria con cui, attraverso il “bombardamento” di gesti romantici, frasi dolci, sorprese mozzafiato, dichiarazioni importanti …,  una persona riesce ad accattivarsi la fiducia o i sentimenti di un’altra, per un secondo fine. Il love bombing può essere considerato, nella sua forma più patologica, come un vero e proprio plagio, finalizzato ad ottenere il controllo su di un’altra persona. La definizione è stata coniata dalla ricercatrice Margaret Singer per definire la modalità persuasiva e manipolatoria con cui i guru o gli adepti di  sette reclutano nuovi proseliti o i truffatori possono circuire le loro vittime (leggi a questo proposito quello che ho scritto sul Catfishing). Ma il Love Bombing è sempre patologico? Se si cerca su google i termini: Love Bombing, appare subito chiaro come l’accezione contemporanea più diffusa per questo comportamento sia associata ad una figura oggigiorno molto conosciuta, il narcisista patologico. In questa cornice il love bombing sarebbe dunque una tecnica manipolativa, utilizzata dal narcisista, in maniera più o meno inconsapevole, per legare a sé il partner. Questo avviene nella fase iniziale della frequentazione, si sovrappone alla fase della “luna di miele” e può essere confusa con questo momento inaugurale di ogni rapporto romantico. Le differenze sostanziali sono due: 1) tutto è troppo: troppo romantico, troppo intenso, troppo veloce, ma anche troppo impegnativo col senso di poi; 2) una volta che il partner è stato conquistato, fa la sua apparizione la tanto temuta “svalutazione”. Idealizzazione e svalutazione Questi due meccanismi psicologici nelle relazioni romantiche si manifestano in maniera massiccia. L’idealizzazione è molto presente all’inizio e permette la costruzione di un legame con l’altro. In fondo è grazie all’idealizzazione che una persona del tutto sconosciuta può gradualmente acquisire valore per un’altra. Chi idealizza profonde i propri sforzi affinché possa conquistare l’oggetto del suo desiderio, ciò implica che venga a sua volta idealizzato. E’ esattamente questo l’aspetto a cui mira il love bomber: essere idealizzato per poter avere potere sull’altro. Una volta forte di questo potere, avrà il controllo sull’altro e utilizzerà la svalutazione come mezzo per correggerne il comportamento per il suo tornaconto. La svalutazione comporta dolore e sofferenza. Tuttavia brucia ancora di più se proviene da qualcuno che amiamo, perché da questi, più che da altri aneliamo il riconoscimento. Nel momento in cui questo comportamento è deliberato si può parlare senza fronzoli di plagio o abuso psicologico. Qualora non sia del tutto intenzionale è comunque un atteggiamento manipolatorio diretto ad avere il controllo sull’altro. Il desiderio di controllo è quanto di più lontano ci sia dall’amore. Caratteristiche del love bombing Ricapitolando quindi il love bombing è una strategia manipolativa che, con le dovute attenzioni, può essere riconosciuta fin dall’inizio. Di seguito una lista di comportamenti, individuati dalla ricercatrice americana Lori Nixon Bethea, la cui presenza può far sorgere il dubbio tra un onesto corteggiamento e il Love bombing: Love bombing nelle relazioni amorose Non credo sia così facile stabilire il grado in cui il love bombing è una tecnica messa in pratica con completa deliberazione. Sicuramente nei casi patologici è così. Mentire senza ritegno per ottenere la fiducia e la stima dell’altro, per raggiungere i propri fini, è un comportamento sociopatico, non solo narcisistico. Tuttavia è ben più comune che questi soggetti comunichino all’altro quello che davvero sentono. Il sentimento non mente ma è ingannatore. Nel senso che se non trattato può scomparire presto e ripresentarsi da un’altra parte per un’altra persona. Quello che spesso capita è che uomini o donne si sforzino di conquistare una persona ma poi realizzano che ciò che davvero gli interessava era solo la sfida prospettata dalla conquista. Dopo che abbiamo considerato questo punto di vista, il Love Bombing, corrisponde ad una strategia per ottenere al più presto quello che si desidera. La “conquista” di chi è stato posto sul piedistallo dell’idealizzazione e qui ci rimane fintanto che si nega, che non si apre del tutto. Salvo poi che, nel momento in cui si danno le reali condizioni affinché la relazione possa esistere, perché chi era inseguito si decide, il love bomber può tirarsi indietro. Forse non era davvero pronto per una relazione, forse una volta ottenuto il riconoscimento che cercava è soddisfatto, oppure è troppo spaventato dal fatto che le cose possano farsi serie. Per quanto diverse, queste motivazioni non cambiano il comportamento messo in atto, che è sempre il medesimo: sparire, ma con riserva, per non perdere un aggancio, per la paura di fare un passo sbagliato. Potrebbero interessarti anche:

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